Via Heckmair – Parete Nord Eiger

Molto è stato scritto e raccontato su questa parete negli anni e di nuovo tante storie verranno raccontate negli anni a venire; oggi cercherò di descrivere la mia salita che parte da molto prima di quei giorni di ottobre di poche settimane fa…

Non ricordo esattamente la prima volta che sentii parlare della “Nordwand”, ma so che fu proprio all’inizio, quando ancora non avevo usato delle scarpette d’arrampicata e il mio era un alpinismo ispirato alle grandi classiche in quota: creste, quattromila e pareti nord. Proprio per questo subito mi catturò il fascino di questo itinerario che, seppur tecnicamente molto lontano dalle mie capacità di allora, mi richiamava a sé con quell’aura che solo le salite storiche ormai quasi mitiche sanno fare. Negli anni ho piano piano ampliato la mia visione alpinistica esplorando i fantastici mondi della roccia, del ghiaccio e dello sci, ma questa parete, insieme alle altre cinque delle sei nord, è sempre rimasta nei miei pensieri. Nel 2021 salgo la mia prima grande Nord, la Cassin sulla Nord Est del Pizzo Badile, in una giornata perfetta che definirei quasi “rivelante”. Capisco infatti qualcosa che forse già sapevo, ma di cui avevo bisogno di conferma: “queste salite sono ormai alla mia altezza” penso in cima al Badile e subito la mente viaggia con il pensiero superando centinaia di chilometri e catene montuose, raggiungendo le altre Nord e, infine, anche l’Eiger nella lontana Svizzera di Grindelwald.

La Nordwand
“Fessura difficile”
Parte alta “il ragno”

Passano ancora un po’ di anni e riesco a salire la nord del Cervino dalla Schmidt, la nord delle Grandes Jorasses per lo Sperone Walker e la nord del Petit Dru dalla via Allain-Leininger. Su quest’ultima vivo forse una delle più intense avventure in montagna insieme al compagno di sempre Dario Eynard, con quattro giornate che ancora oggi mi trasmettono forti emozioni quando capita di ripensarci. Parallelamente decido che voglio lasciare per ultima la più semplice delle “sei”, ovvero sia la Cima Grande di Lavaredo; questo però mi vede inevitabilmente obbligato a salire l’Eiger come prossima Nord, ma la cosa non mi spaventa affatto. L’anno scorso, infatti, dopo aver salito la Nord del Cervino, riesco a tenermi ben allenato con un’ottima stagione di misto e cascate che mi permette di pensare di fare la Nordwand in giornata con un certo margine. Tuttavia, le cose non vanno esattamente come avevo pianificato e, fra il secondo livello del corso guide, alcuni imprevisti e la stagione ormai troppo avanzata, non riesco a mettere le mani sull’Orco. Dopo una iniziale delusione, però, penso che, tutto sommato, forse è meglio che le cose siano andate così; la primavera di quest’anno aveva infatti visto tantissime ripetizioni della Heckmair a causa delle condizioni molto buone in aprile, ma questo aveva inevitabilmente reso quasi impossibile affrontare la parete in solitudine o comunque con un’atmosfera che potesse rendere onore a storia e vicissitudini dell’Eiger.

Mi riprometto quindi di fregarmene dei report e delle condizioni, affidandomi solo a me stesso e alle mie personali valutazioni che poi in parete verranno confermate o meno, permettendomi di salire o costringendomi a una ritirata. L’autunno non fa neanche in tempo a ingranare seriamente la marcia che, verso metà ottobre, fiuto qualcosa e subito vado a studiarmi le webcam di Grindelwald; dopo qualche giorno passato a scervellarmi fra confronti di immagini di vari periodi, teorie sul clima e le temperature in parete giungo alla conclusione che potrebbero esserci condizioni accettabili.

“IT’S IN!!”

So per certo che la prima parte di parete (circa 600/700 metri di parete!) è in condizioni pessime, molto secca e costringerà a un bel ravanage dove di solito si sale veloci in conserva, ma la parte alta forse prevede anche della bella arrampicata su ghiaccio… Forse!

Inizio quindi a pensare al socio giusto per questa avventura e, dopo qualche minuto di contemplazione, la scelta diviene subito inevitabile: Ricky “Lametta” Pilati. Riccardo è un amico e collega con cui ho fatto il corso aspiranti e con cui c’è un ottimo feeling (cosa fondamentale per salite del genere di più giorni con bivacchi) e con cui ho già condiviso un po’ di salite impegnative, tra cui anche Beyond Good and Evil.

Che dire… Il lametta è sicuramente un super boss, quello giusto per la nord dell’Orco!

Dopo molti “ma forse…”, “però se…”, “speriamo che…” e qualche giorno ci ritroviamo a Grindelwald, dove, poco dopo mezzogiorno, prendiamo la funivia che porta quasi alla base della parete con l’idea di affrontare la prima parte secca della via (dove spesso ci si perde senza traccia) nel pomeriggio per bivaccare nei pressi del primo tiro chiave “la fessura difficile”.

Primo tiro della parte “facile”
Verso il primo bivacco
Bivacco

Per farla breve, ne usciranno circa dieci tiri con difficoltà non banali che ci fanno perdere non poco tempo, ma riusciamo comunque ad arrivare a un buon posto da bivacco poco prima delle ultime luci. Scaviamo un buco nella neve e, dopo aver velocemente ingurgitato due liofilizzati, ci infiliamo dentro al sacco per scappare dal freddo sempre più pungente.

Imposto la sveglia.

“Bella Ricky 10 ore di sonno!”

“Gabri… Come la vedi?”

Non rispondo subito, so che una parola sbagliata in queste situazioni può essere disastrosa.

“Massì, dai domani saliamo e vediamo ma secondo me sopra non è male.”

Passa una lunga notte dove, chissà per quale motivo, praticamente non riuscirò a chiudere occhio ma in compenso posso ammirare una stellata davvero magnifica con tante stelle cadenti che mi fanno compagnia.

Ho sempre trovato il risveglio in parete una delle cose più snervanti e faticose di queste salite, con tutte le delicate operazioni necessarie per uscire dal sacco, sciogliere la neve e mettere in ordine il materiale; la mia mente non riesce a stare tranquilla. Molto meglio scalare pensando solo al prossimo posizionamento della picozza, annullando tutto il mondo esterno. Dopo tutto questo cinema mattutino, finalmente partiamo e con due tirelli ci troviamo alla base della fessura difficile (effettivamente facile non è) che menomale è ben chiodata almeno.

Segue una sezione abbastanza facile ma faticosa perché da tracciare che facciamo in conserva sfruttando i tre micro-traxion che abbiamo, un altro tiro verticale e siamo al mitico “traverso Hinterstoisser”. Oggi questo difficile tiro è quasi totalmente addomesticato da delle corde fisse, ma comunque si riesce a percepire la follia e la bravura degli apritori che, con un pendolo e chissà quanti altri trucchi, superarono questa liscia porzione di roccia. La via continua sul “Primo nevaio” per poi salire il “Canalino ghiacciato” (trovato da noi in condizioni perfette), che permette di accedere al grande “secondo nevaio”. Anche qui di nuovo il terreno si fa semplice e ci permette di proseguire in contemporanea, ma purtroppo non riusciamo comunque ad accelerare molto, dato che ancora una volta la neve da tracciare ci rende difficile la progressione. Nonostante avessimo inizialmente sperato di bivaccare fuori dalla “rampa”, nella mia testa diventa sempre più chiaro che sarebbe meglio fermarsi al famoso “bivacco della morte”, che ci costringerà a una scalata più lunga il giorno successivo, ma a un miglior riposo, e anche questo è un fattore molto importante da considerare su queste pareti.

Condivido quindi i miei pensieri con Riccardo e decidiamo di fermarci anche se è ancora relativamente presto, in compenso abbiamo tutto il tempo per fare con calma le varie operazioni da bivacco. Di nuovo punto la sveglia, questa volta un po’ prima con l’idea di iniziare a scalare col buio per guadagnare minuti preziosi il giorno seguente.

Cena al “bivacco della morte”
“Canalino ghiacciato”
Vita da bivacco

Suona la sveglia.

“Cavolo sono ancora qua?” penso subito sentendo il vento sul naso.

Partiamo bene e percorriamo tutta la rampa quasi fino al tiro della cascata in conserva; ecco, a proposito della “cascata”, era uno di quei tiri che avevo proclamato “sicuramente in condizioni” dalle webcam. Peccato che invece si sia rivelato un tiro decisamente impegnativo su ghiaccio/neve verticale di scarsa qualità, con protezioni dubbie e tutto da pulire (funghi di neve ovunque). Dopo qualche imprecazione e un nut incastrato che rimarrà sul tiro, superiamo anche questo ostacolo e proseguiamo abbastanza velocemente fino alla “fessura friabile”, un tiro di norma sicuramente bello da scalare ma che purtroppo si presenta con gli appigli coperti da verglas, che ancora una volta mi costringono a una scalata delicata.

Il “traverso degli Dei”, beh, non saprei come descriverlo; penso che solo scalandolo si possa capire: 120 metri di traverso sospeso con più di 1000 metri di vuoto sotto i piedi.

Tre tiri, una sosta su picche, 120 metri di conserva a cannone e siamo alla base della “fessura di quarzo” che per fortuna troviamo in condizioni abbastanza buone.

“Traverso degli Dei”
Fessura di quarzo
In vetta all’Orco

Arriviamo al “bivacco Corti” alla base dei camini finali che sono l’ultima insidia della parete, soprattutto se si trovano secchi come ovviamente li abbiamo trovati noi; però almeno siamo scaldati dai raggi di sole prima del tramonto. Rimanendo concentrati, saliamo queste tre lunghezze di corda dentro a fetidi camini dove non sono ammessi errori e sbuchiamo sotto i “pendii” finali che proprio pendii non sono per almeno altri 200 metri.

Ci fermiamo qualche minuto, mandiamo giù un paio di gel, beviamo un po’ di acqua gelida e mettiamo addosso tutti gli strati che abbiamo.

“Porca p***ana che freddo Ricky!”

Riparto subito per svegliare la circolazione sparandomi 50-60-Boh metri di slego fino al primo posto dove riesco a piazzare un friend e un nut che velocemente collego con un rinvio lungo, aggiungendo una micro-traxion.

“Parti Rickyyyy!”

Mi avrà sentito? Boh, comunque capirà la corda è finita!

Continuo per altri “Boh metri” che mi saranno sembrati 200 ormai completamente al buio con la frontale che illumina solo quei due metri fra le mie mani e i miei piedi, ma meglio così; quei due metri sono l’unica cosa che conta in quel momento, tutto il resto è una distrazione.

Dopo un altro lungo tratto e una crestina finalmente il terreno si abbatte un po’ e del buon ghiaccio mi permette di recuperare Riccardo da due “solidissime” picozze.

“Dai boss, quella che vedi lassù è la cresta, portaci in cima! Saranno 70/80 metri; quando finisce la corda ti seguo… Occhio.”

Dieci minuti e mi ritrovo sulla cresta in cima alla parete nord, ma non c’è tempo per rilassarsi. Inizialmente valutiamo un altro bivacco in vetta, ma poi, ingolosito dalla discesa già tracciata, propongo a Riccardo di scendere (*lo obbligo, scusa boss!). Sapevamo che la discesa classica dalla parete Ovest era in pessime condizioni attualmente, quindi il nostro piano era di scendere la “West Flank” e le tracce sembravano proprio portare in quella direzione. Purtroppo, però, scendendo ci renderemo conto che ci avevano portati proprio sul ghiacciaio della parete Ovest, ma ormai era troppo tardi ed eravamo troppo stanchi per tornare indietro. Allo stesso tempo, bivaccare era fuori discussione: non sapendo dove esattamente ci trovavamo e non vedendo nulla, non avevamo modo di trovare un posto sicuro e al riparo. Continuiamo quindi a scendere, seguendo le tracce sempre più difficili da individuare fino a un salto roccioso che ci impedisce di continuare.

“Ma dove diavolo sono passati questi?”

Destra, sinistra, cerco una calata, qualcosa che mi indichi la via fino a quando non intuisco che, sfruttando un sistema di cenge esposte, si potrebbe riuscire a superare il salto. Sotto il salto, di nuovo sulla neve, con immenso sollievo trovo le tracce.

“Vieni è di qua, ci sono le tracce si scende!”

Inizia così un loop che si ripete per almeno tre o quattro volte: ghiacciaio, salto, trovo una cengia o una calata, terminale e di nuovo ghiacciaio. Repeat!

Dopo ore di navigazione al buio, riusciamo finalmente a raggiungere la fine del ghiacciaio, dove ci ricolleghiamo al sentiero attrezzato che in breve ci porta alla stazione della funivia (dove arriveremo alle 4:00), nei pressi della quale dormiremo per qualche ora in attesa della prima discesa.

Cosa mi lascia questa salita? Beh, sicuramente è stata una bella avventura, non la più dura, non la più fredda; però ci ha permesso di vivere delle giornate di vero alpinismo invernale. Quell’alpinismo di una volta, quando salivi ma non sapevi com’erano le condizioni, ti toccava sucare e dovevi pure stare zitto perché alla fine l’hai deciso tu di metterti in questa situazione. Penso che alla base, nel nucleo, di ogni alpinista dovrebbe esserci proprio questa necessità e desiderio, ogni tanto, di fare qualche salita con tante incognite e nessuna certezza di successo; ed è proprio quando finalmente facciamo “il passo” e ci immergiamo in questo genere di scalate che saremo in grado di affrontare le montagne con l’umiltà e il rispetto che meritano, aggredendole però allo stesso tempo con tutta la forza del nostro fisico e spirito.

Come due guerrieri che si affrontano senza risparmiarsi nessun colpo nonostante un profondo rispetto reciproco.

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